Attualmente le regole di un sistema fiscale sono rimesse alla volontà di ciascun Stato. E’ quest’ultimo che decide di aumentare le tasse o di abbassarle, che decide a chi applicarle e a chi no. Si tratta un principio cardine, da sempre alla base di una sovranità nazionale, che a dispetto della sua importanza, però, ha permesso a molti Paesi di adottare sistemi fiscali tanto generosi da consentire a diverse aziende multinazionali di pagare molte meno tasse di quanto avrebbero dovuto. Infatti, pur continuando a generare profitto in tutto il mondo, i grandi colossi imprenditoriali (in particolare quelli digitali) hanno via via trasferito le proprie sedi lì dove le aliquote risultavano particolarmente basse, lasciandosi alle spalle vere e proprie voragini economiche.
Il tema della tassazione delle multinazionali mi è sempre stato molto caro. Così anche al Movimento. Così anche ai Governi italiani degli ultimi anni. E invero, nel 2019, nel solco dell’iniziativa francese e dei lavori avviati in seno all’Unione europea, l’Italia introduceva, attraverso la legge di Bilancio 2019 (art. 1, commi 35-50, L. 145/2018) poi modificata dall’art. 1, comma 678 della Legge di Bilancio 2020 l’imposta sui “servizi digitali” (c.d. web tax italiana), applicata a tutti gli esercenti attività di impresa che, a prescindere da una loro presenza fisica sul territorio italiano, avevano, nell’anno solare, realizzato ricavi complessivi non inferiori a 750 milioni di euro nel mondo e, allo stesso tempo, ricavi derivanti da servizi digitali offerti sia a imprese che a privati non inferiori a 5,5 milioni di euro. Sicché, grazie a questa manovra, l’Italia incassava il 3% sul fatturato percepito sul suo territorio per la fornitura di servizi digitali. Certo, come hanno fatto notare alcuni, l’Italia incassava meno di quanto avrebbe dovuto, ma incassava (233 milioni di euro nel 2020 a fronte dei 700 milioni previsti dall’Osservatorio dei Conti pubblici).
La web tax italiana è stato un buon esperimento, ma certamente poco di fronte a quello che si potrebbe ottenere se l’Unione europea facesse squadra, formando una normativa fiscale unica per tutti i Paesi Ue. Questa è una soluzione che l’Europa conosce bene, tant’è che nel 2018 il Consiglio cominciava le opportune consultazioni sulle proposte elaborate in materia di digital tax dalla Commissione Ue.
A fronte dell’intensificarsi dei negoziati avviati già da tempo a livello internazionale in seno all’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), i lavori europei sono stati però sospesi. Sebbene ciò possa destare qualche perplessità, la scelta di attendere gli esiti delle trattative internazionali è più che condivisibile. Rispetto a un’isolata scelta nazionale o esclusivamente europea, una regolamentazione globale sulla tassazione delle multinazionali del web sarebbe certamente più stabile, fondata su un consenso internazionale, e tale da contrastare in modo più ampio le condotte delle multinazionali del web sul piano transnazionale.
Dopo anni di negoziati, pochi mesi fa (luglio 2021) il G20 a presidenza italiana è riuscito a riunire 130 paesi e giurisdizioni del mondo attorno a due regole certamente salvifiche sul piano fiscale internazionale. In base alla prima, è previsto che ogni impresa avente ricavi di oltre 20 miliardi di dollari sia tenuta al pagamento di un’imposta in ogni Paese dove essa genera profitti, i c.d. Paesi mercati. Si tratta di un’imposta consistente nel 10% sull’eccedente del fatturato realizzato dalle predette imprese. In base alla seconda regola, invece, viene stabilita la previsione di un’aliquota minima globale del 15% a carico di tutte le multinazionali di modo da evitare i trasferimenti dei profitti presso i famosi paradisi fiscali. L’imposta minima internazionale verrebbe, in particolare, prelevata nel paese dove l’impresa ha la sede nominale e da lì ridistribuita ai singoli Stati dove opera la multinazionale.
Queste regole potranno diventare realtà nell’ottobre di quest’anno, quando il G20 si riunirà per siglare l’accordo. Si tratta di un grande traguardo che permetterà di sostituire la regola in base alla quale le tasse si pagano nello Stato dove l’impresa ha la propria stabile organizzazione, con quella, certamente più adeguata alla natura dei mercati digitali, che invece prevede l’adempimento dell’onore fiscale presso lo Stato dove l’impresa crea valore.
Un sistema fiscale internazionale di questo tipo permetterà di distribuire la potestà impositiva in modo certamente più equo tra tutti i Paesi firmatari, permetterà di proteggere la leale concorrenza tra le imprese, e soprattutto di avere un ritorno fiscale particolarmente utile di fronte alle spese che l’Unione dovrà sostenere per affrontare i 750 miliardi di debito del Recovery Plan Ue.
Il segnale politico lanciato negli ultimi mesi è inequivocabile, anche se forse, come sostenuto da voci particolarmente autorevoli, con riferimento all’aliquota globale minima si sarebbe potuto fare di più, magari fissandola al 21%, come proposto ad inizio delle trattative.
Lasciare la tassa minima al 15% significa, in fondo, perdere un’occasione. Nel territorio europeo, ma soprattutto in quello italiano, al 15% non si tassano nemmeno le piccole e media imprese. Anzi! La percentuale in questione è appena sopra quella già prevista da paesi considerati, in ragione della loro disciplina fiscale, particolarmente appetibili per le multinazionali del digitale. E’ il caso, ad esempio, dell’Irlanda dove l’aliquota minima è fissata al 12,5%. Al 21%, l’aliquota avrebbe invece permesso entrate di gettito fiscale per un ammontare pari a 100 miliardi (a livello europeo) e di 7,6 miliardi per l’Italia.
Peraltro, a ciò va aggiunta la necessità di correre ai ripari rispetto alla trasparenza fiscale. Qualche passo avanti è stato fatto, ma attualmente appare ancora troppo facile falsare le dichiarazioni sui profitti effettivamente realizzati dalla multinazionale digitale. L’accordo dovrebbe introdurre molteplici precisazioni, soprattutto sulla necessità che le dichiarazioni sulle ripartizioni effettuate dalla grande società tra le sue divisioni sparse su diversi territori sia la più cristallina possibile. La domanda che forse parrebbe il caso di porsi allora è la seguente: a quanto un bilancio consolidato di tipo europeo nel quale vengano riunite in modo chiaro ed esaustivo costi, ricavi, debiti e crediti di tutte le società digitali? A quanto un sistema fiscale unico che impedisca che ogni paese preveda criteri di determinazione dell’onere fiscale di volta in volta diversi?
E’ certo che l’Ue e l’Italia, che è tra i 40 paesi nel mondo ad aver adottato e sperimentato una web tax, non farà dei passi indietro, né si accollerà la perdita di ulteriori miliardi. Solo nel 2020, abbiamo perso 6,4 miliardi di gettito fiscale mancato e finito dietro le coste di Paesi meno solidali. Ottobre sarà un appuntamento importante, ma se le norme attuative non saranno soddisfacenti bisognerà spingere in maniera decisa sul fronte europeo, ritornare sui nostri passi, perché in un mercato globale le tasse vanno pagate non dove esse sono più basse, ma dove si fanno affari, si generano profitti, dove si crea valore.
E’ una questione di giustizia sociale.