Tante spiagge stessi gestori. A quando un definitivo intervento sulla questione delle concessioni marittime?

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In Parlamento, il disegno di legge in materia di concessione demaniale marittima è ancora pendente. E stante la molteplicità degli interessi coinvolti, nonché gli imminenti appuntamenti elettorali del 3 ottobre, non poteva immaginarsi altrimenti. Ma è davvero possibile rinviare ancora di molto l’intervento di riforma? A leggere i richiami provenienti dall’Antitrust e le previsioni circa il possibile epilogo della procedura di infrazione, non residua alcun dubbio.

La questione delle concessioni marittime è diventata particolarmente complessa quando, nel 2006, l’Unione europea, al fine di armonizzare le normative nazionali in materia di concessioni attorno al principio di libera concorrenza, trasparenza e non discriminazione, adottava la famosa Direttiva Bolkestein, che, senza mezzi termini, imponeva al nostro paese l’eliminazione di titoli preferenziali a favore dei concessionari, in primis quello delle proroghe illimitate, e l’instaurazione di una procedura selettiva pubblica aperta tanto alle imprese nazionali quanto europee.

Dal 2006 a oggi, la normativa nazionale non è mutata e ciò per due ordini di ragione: in primo luogo, l’esigenza di preservazione dell’identità culturale delle zone costiere oggetto di concessione, che, a detta di molti, risulterebbe sicuramente afflitta laddove il concessionario fosse un’impresa europea non italiana; in secondo luogo, l’affidamento nel frattempo maturato dalle imprese concessionarie. Quest’ultime, in ragione delle proroghe, hanno invero effettuato cospicui investimenti ovvero pianificato piani gestionali di lungo periodo che, nel caso di annullamento delle proroghe già effettuate (o dimezzamento del termine di proroga), comporterebbero una perdita insostenibile per l’impresa uscente.

Si tratta di questioni particolarmente delicate. In gioco, c’è un settore culturale ed economico assai nevralgico per il nostro paese. Ma la Direttiva che l’Italia si rifiuta di recepire non è la minaccia che viene descritta da decenni.

La Direttiva prevede sì il divieto di proroghe indiscriminate, ma permette un certo spazio di manovra nella definizione delle procedure di gara e nell’elaborazione dei criteri di selezione dell’impresa candidata. Ciò significa che il vero nocciolo della questione non è recepire la Direttiva. A fare ciò siamo tenuti in forza dei Trattati. Il punto nodale è avviare il Paese a un sistema selettivo equilibrato, siccome tutto orientato ad accertare la capacità delle imprese candidate di assicurare una continuità gestionale ottimale e sensibile alle istanze territoriali.

In altre parole, dobbiamo ammettere che, sulla spinta della Direttiva, esiste la possibilità di creare un sistema senza proroghe, purché, data la natura demaniale del bene oggetto di concessione, fondato su vincoli ineluttabili, quali, ad esempio: il vincolo di ricorrere alle stesse modalità operative (se) adottate (in modo efficace) dall’impresa concessionaria precedente; il vincolo di adottare adeguate politiche aziendali improntate a sostenibilità; o ancora, il rispetto di precisi parametri di spesa.

Sistemi selettivi come questi permetterebbero di contenere i pericoli economici e culturali più volte prospettati, e forse più di quanto si riuscirebbe continuando con il sistema delle proroghe.

Insomma, a parere di chi scrive, un nuovo sistema di concessione demaniale marittima potrebbe esistere solo se fondato su opportune condizioni, vagliate in punto di parità di trattamento, e tutte strumentali alla più efficace e ottimale tutela del territorio e della condizione economica dell’impresa uscente.

Non si tratta di avviare il paese a un processo di perdita della propria identità territoriale o del proprio potere turistico. Tutt’altro. L’Italia ha bisogno di una riforma che implementi trasparenza e imparzialità delle concessioni, tutela del territorio e – questo in fondo il più ambizioso traguardo – che le permetta di rimanere al passo con l’offerta turistica europea.

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