Con la prossima manovra di Bilancio, l’Iva sugli assorbenti andrà al 10%. Un buon risultato, ma di strada ne manca. Il vero obiettivo è portarla al 4%, se non azzerarla del tutto, e questo per una ragione ovvia anche se tutt’altro che scontata: quanto è ammissibile, oltreché socialmente sopportabile, applicare l’Iva del 22%, prevista per i beni di lusso (1), anche su beni indispensabili di cui non si può fare a meno?
In base alla griglia di cui al Testo Unico sull’IVA, gli assorbenti sono considerati beni “speciali”. Il che significa affermare che il loro acquisto dipende dalla mera, personale scelta delle consumatrici. Più che un assunto, insomma, si tratta di un assurdo che permette equiparazioni improponibili come quelle tra assorbenti e fumo o assorbenti e alcol.
Nel periodo di fertilità, le donne arrivano ad acquistare un numero di assorbenti che oscilla tra i dieci mila e i quattordici mila. Considerando che al mese, una donna spende tra i cinque e i sei euro di assorbenti, calcolate a quanto ammonta la spesa complessiva nell’arco di un anno e nell’arco di un intero ciclo mestruale(2).
Un costo irragionevole e inaccettabile, soprattutto quando una siffatta spesa grava su un contesto familiare a maggioranza femminile e, ancor di più, quando la spesa in questione grava su donne che versano in situazioni di difficoltà economica.
Prima dell’attuale manovra fiscale che, come su anticipato, porterà l’Iva sugli assorbenti al 10%, qualche tentativo riformatore c’è stato. E’ il caso della manovra fiscale 2020, L. 157 del 2019, che inizialmente proponeva una riduzione dell’aliquota IVA su tutti i prodotti igienici femminili al 5% per poi approdare a una soluzione più timida: l’Iva resta al 22%, ma diventa del 10% solamente per gli assorbenti biodegradabili, le coppette mestruali lavabili, dispositivi di protezione compostabili.
Una scelta timida perché invece di centrare la questione, l’ha raggirata, trasformando una battaglia di equità sociale in una ambientalista.
E’ bene precisare che l’impatto ambientale c’è ed è noto da tempo(3), ma la soluzione alla discriminazione fiscale di genere non è risolvibile attraverso l’uso di prodotti diversi dal classico assorbente.
La questione è un po’ più articolata.
Anzitutto, occorre precisare che prodotti come le coppette mestruali, gli assorbenti lavabili e le mutande assorbenti, non è detto che vadano bene per tutte le donne, potendo questi risultare particolarmente scomodi nella quotidianità.
A ciò, si aggiunga altresì che la principale limitazione nell’acquisto di assorbenti a impatto ambientale zero non è così semplice, stante la scarsità nel mercato di prodotti igienici biodegradabili certificati(4), nonché la carenza sul territorio nazionale di siti di compostaggio per il trattamento, il riciclo e lo smaltimento di prodotti come gli assorbenti(5).
Di là dalla percezione e consapevolezza personale(6) quindi, la sostituzione degli assorbenti in cellulosa con i prodotti su indicati non appare congeniale(7), e tanto va ribadito se sol si tiene conto che la stessa Commissione Ue ha deciso di rimuovere gli assorbenti dall’elenco di prodotti inquinanti proprio per l’assenza di prodotti di igiene alternativi.
Già nel 2006, con la direttiva europea sulla riduzione dell’Iva per tali beni(8), l’Ue prevedeva che ogni paese dovesse fissare un tetto minimo di imposta per diverse categorie di beni, ma allo stesso tempo ribadiva una certa flessibilità rispetto alle manovre fiscali strumentali alla parità di genere.
Una posizione, questa, ribadita ancor più esplicitamente con la recente risoluzione del Parlamento europeo, in seno alla quale la tampon tax viene considerato “strumento di violazioni della salute sessuale e riproduttiva delle donne, rappresentando una forma di violenza nei confronti delle donne e delle ragazze, nonché ostacolando il progresso verso la parità di genere(9)”.
Fatto salvo il caso di alcuni paesi come l’Ungheria che mantengono l’Iva sugli assorbenti al 27%, e fatto salvo il caso dell’Irlanda che l’ha azzerata, molti paesi Ue si stanno allineando alle indicazioni del Parlamento in modo incerto, lasciandola oscillare tra il 7% e il 12%.
La soluzione è azzerare l’Iva. Mantenerla sopra lo zero significa aggravare la posizione sociale delle donne; significa ignorare situazioni estremamente delicate e generare tristi fenomeni come quello della “povertà mestruale”. La tassa sugli assorbenti può impedire e ostacolare la vita delle donne in tutte le sue manifestazioni.
Insomma, più che una vittoria, quell’Iva abbassata al solo 10% sembra più una gentil concessione. Ma tant’è! Nel frattempo, le campagne di sensibilizzazione vengono portate avanti dai vari comuni d’Italia, dalle grandi catene commerciali, dalle singole farmacie che, ora l’una ora l’altra, abbassano l’Iva per lanciare importanti segnali politici e, soprattutto, per aiutare chi ha serie difficoltà nell’acquisto di tali beni.
L’inerzia italiana è davvero incomprensibile. Una buona parte del Parlamento ha a cuore questa battaglia. Un’altra, un po’ meno. E tanto la dice lunga su certi tratti che connotano ancora il nostro paese.
1 In tal senso si veda il Testo Unico sull’IVA: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1972/11/11/072U0633/sg
2 La spesa annuale sarebbe pari a 126 euro con Iva pari a 22,88 euro. Con il passaggio dal 22% al 10%, l’Iva risulterà pari a 12,88 euro circa.
3 https://friendsoftheearth.uk/sustainable-living/plastic-periods-menstrual-products-and-plastic-pollution ; Plastic-Free Periods: Why Women Need To Go Green During ‘That Time Of The Month’ (forbes.com)
4 Si fa riferimento al certificato del CIC (Consorzio Italiano Compostatori) e quello ICEA (Istituto certificazione etica e ambientale) circa i tempi di biodegradabilità dei prodotti e di riuscita del compost.
5 Ciò per tutta una serie di ragioni come, ad esempio, l’assenza di adeguati sistemi di insufflazione dell’aria.
7 C’è un esempio certamente interessante, realizzato nel 2015 dall’azienda Fater Smart, leader nel mercato di produzione e distribuzione di prodotti intimi e assorbenti per la cura della persona: Progetto riciclo | Fater (fatergroup.com). Si tratta di un impianto capace di ricavare da una tonnellata di pannolini usati riciclati 75 kg di plastica e ben 225 kg di materia organico-cellulosica riutilizzabile nella produzione industriale.