Non è certo una mossa semplice, ma necessaria: il Patto di stabilità europeo va cambiato. Negli
anni, la questione è stata discussa eccome. Il più recente dei tentativi di riforma è quello del
febbraio 2020. Un tentativo che prendeva le mosse dall’eterna consapevolezza: i parametri di deficit
del 3% e di debito del 60% rappresentano una insensata limitazione alla crescita delle economie (1) .
Il Patto, e non sono in pochi a ribadirlo, ha originato un sistema di finanza pubblica soffocante, che
continua a lasciare i paesi membri in sistemi fiscali per nulla sostenibili. Soprattutto adesso, quando
l’Ue si prepara a un’azione fiscale comune, una politica di bilancio diversa, fatta di centinaia e
centinaia di miliardi destinati a grossi investimenti a supporto della transizione climatica e digitale,
della lotta al Covid-19, della cooperazione allo sviluppo.
L’anno scorso, il Patto è stato sospeso per lasciare agli Stati il necessario margine di manovra per la
ripresa. Adesso che in sede europea sono cominciate le consultazioni (2) per discutere su una possibile
riforma del Patto, l’auspicio che tali sospensioni vengano prorogate è ampiamente condivisa.
A fronte di un’effettiva impossibilità di intervento sui Trattati (3) , la chiave di lettura più realistica è la
modifica dei regolamenti attuativi. Intervenire sul Two Pack, sul Six Pack, sul Fiscal Compact, oltre
ad apparire più agevole per la regola della maggioranza qualificata richiesta per un siffatto
intervento, risulta la più sensata. Il vero nocciolo della questione è proprio il contenuto di tali atti
normativi di natura secondaria.
È all’interno di essi che vengono indicate le modalità attraverso le quali uno Stato membro deve
rientrare in caso di superamento dei parametri, e cioè nel caso in cui registri un debito eccessivo.
Formalmente, non contengono delle misure sanzionatorie, ma di fatto sì: parametri irreversibili e
generalmente rigidi come quelli del 3% e del 60% strozzano le manovre fiscali sulla base del solo
dato del superamento dei predetti limiti (4) .
Si tratta di un sistema che va modificato senza che l’ansia euroscettica prenda il sopravvento, ma
nella consapevolezza che il sistema non funziona per precise, tecniche e largamente condivise
motivazioni.
Tra queste, la seguente: ora che i singoli paesi si preparano, sotto l’egida dell’Ue, ad investimenti
espansivi (legittimati dal Recovery and Resilience Facility) e l’eurozona registrerà una crescita del
3,8% (5) , l’indebitamento degli Stati supererà fisiologicamente e di gran lunga la soglia limite del
60%.
Dinanzi a una situazione di questo tipo, è ovvio che il predetto parametro – che costringe a una
riduzione dell’eccedenza del debito a un ventesimo all’anno – rischia di essere un’inutile zavorra o,
come definita da più parti, “una vera e propria tagliola che ucciderebbe qualsiasi ripresa
economica”.
Ebbene, di soluzioni ce ne sarebbero.
Tra queste, quella “cuscinetto” di una golden rule per così dire ridotta, chiamata “Green Rule”.
Si tratta di una regola che, se applicata, derogherebbe l’attuale normativa europea con effetti che a
detta di molti, permetterebbero ai singoli Stati e, quindi, all’Ue, di realizzare una ripresa economica
seria e convinta.
In breve, la regola della golden rule è quella in forza della quale uno Stato può indebitarsi solo per
gli investimenti infrastrutturali e in capitale umano, sostenendo, invece, le spese correnti solo con il
carico tributario. Attraverso tale via, è possibile intensificare l’attività produttiva durante la fase di
contrazione del ciclo economico, rimettendo invece alla fase di ripresa (e cioè alla fase di crescita
del gettito fiscale) il recupero del disavanzo creato e, dunque, la realizzazione di un equilibrio di
bilancio dell’intero ciclo economico.
Insomma, con la golden rule il debito nazionale verrebbe ridotto, da un lato, sostenendo le spese
correnti con le entrate tributarie, dall’altro realizzando gli investimenti futuri con l’indebitamento.
Un tale sistema è efficace perché così procedendo è possibile aumentare lo stock di capitale, e cioè
il valore dei beni che contribuiscono alla produzione di merci e servizi del Paese, quindi la
produzione.
Nella proposta attuale, la golden rule sarebbe un green rule per il fatto che la manovra riguarderà
gli investimenti sulla transizione ecologica e digitale. Saranno soltanto quest’ultimi ad essere
scorporati dal deficit/PIL.
Questa, come altre, è una proposta che permette di mantenere le politiche nazionali sempre nel
raggio del coordinamento realizzato in seno al semestre europeo, ma svincolato da parametri tanto
rigorosi quanto, per definizione, anacronistici.
La formula del futuro consta di tre termini: crescita, riduzione del debito, semplificazione. E’
importante che vi sia un largo consenso su questo. Anche perché solo insistendo su questi tre punti
sarà realmente possibile, in generale, un concreto intervento sulle regole fiscali e, ancor prima,
l’elaborazione di adeguate leggi di bilancio. Ciò soprattutto adesso che gli investimenti che
andremo a realizzare implicano, opportune e tecniche, valutazioni sui debiti pubblici, come quella
relativa ad inattesi ma possibili stock inflazionistici (6) .
Da un punto di vista politico, tutto ciò sarà ancora più complesso. È certamente persuasiva la
posizione di quanti spingono più per un approccio interpretativo che di riforma. È meglio
trasmettere una comunicazione in cui l’Ue spiega come aggiustare il tiro sui parametri europei o è
meglio cambiare le norme dei Trattati e rischiare una fase di stallo destinata a durare ben oltre il
2023?
Ritengo che un approccio come quello della comunicazione interpretativa possa portare a un esito
piuttosto sterile, distraendo da quella che è la questione principale, e cioè che le regole vanno
cambiate! Tuttavia, credo che, scartando altre soluzioni, la comunicazione interpretativa risulti
l’unica al momento praticabile.
Ciò, però, senza dimenticare che, prima o poi, certe questioni dovranno essere affrontate.
Bisogna capire che se attualmente i parametri non possono essere rispettati, non è perché si tratta di
un periodo eccezionale, ma perché questi parametri sono insostenibili in ogni tempo.
Sarebbe più sano e realistico chiedere al singolo Stato la creazione di un debito nazionale
sostenibile, agganciato a precisi obiettivi di riforma, e accompagnato da un piano di rientro
dall’extradebito, rimesso, peraltro, alla valutazione di organismi indipendenti di vigilanza nazionali
ed europei (7) affinché la politica fiscale di un paese non metta in pericolo la tenuta dell’intera zona
euro.
Insomma, avrebbe certamente più senso questo che continuare a mantenere tutti gli Stati membri
sotto gli stessi parametri.
Il messaggio è chiaro: via i parametri per Stati più responsabili e autonomi in materia di bilancio.
Via i parametri per avviarci a politiche di mercato. Via i parametri per un quadro fiscale europeo
comune fondato su standard.
La crescita, i tassi di interesse, la stabilità di un governo, politiche pregresse, la fiducia degli
investitori, la dimensione delle entrate tributarie, sono tutti fattori che incidono sulle politiche
fiscali, quindi sulle dimensioni che può assumere un debito, e soprattutto sono questi dei fattori che
cambiano da paese a paese.
Di questi bisogna tenerne conto di volta in volta, perché le politiche fiscali non possono essere
subordinate a parametri irreversibili e predeterminati, indifferenti alle vigenti e reali condizioni
dell’economia. Ovviamente, a meno di non farne pagare le conseguenze alla crescita e, dunque, alla
popolazione.
È un’intuizione vecchia quanto il patto ma sempre valida e, purtroppo, sempre ignorata.
La clausola di sospensione del Patto scade nel 2023. C’è ancora tempo, ma neanche tanto.
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(1) Ai sensi dell’art. 126 TFUE, gli Stati membri possono superare i limiti del 3% di deficit/PIL e del 60% di debito/PIL solo a talune rigide condizioni.
(2) La scorsa settimana sono cominciate le cosiddette consultazioni europee: un momento di confronto tra i singoli governi e i vari stakeholder europei per discutere, in via preliminare, sull’elaborazione di una proposta di riforma del Patto di stabilità da presentare entro la fine dell’anno.
(3) La riforma dei Trattati richiede l’unanimità e ciò, stante le diverse posizioni assunte dagli Stati membri, appare senz’ombra di dubbio una via impraticabile.
(4) Come noto, chi supera questo limite deve ridurre annualmente il proprio debito di un ventesimo della quota eccedente il 60%.
(5) Cfr. “European Economic Forecast – Winter 2021", European Economy Institutional Paper 144 – 2021.
(6) Sul punto, si segnala l’analisi realizzata dall’Osservatorio dei conti pubblici italiani – cpi-inlf.pdf.
(7) E’ il caso delle istituzioni fiscali nazionali indipendenti (IFI), si pensi al nostro Ufficio di bilancio parlamentare; ed è il caso anche del ruolo che assumerebbe la Commissione europea (CE) o lo European fiscal board. Essi avrebbero poteri di controllo e correttivi. In tutto ciò, è di notevole interesse la proposta di assegnare alla Corte di giustizia dell’Unione europea il ruolo di risoluzione delle controversie sorte tra istituzione europea e singolo Stato membro.