Sotto la lente dell’operatore politico l’adottabilità dell’energia nucleare è una questione tuttora irrisolta. Così, ad esempio, si dubita della capacità del nucleare di risolvere il problema dell’approvvigionamento energetico. Si dubita della capacità del nostro Stato di far fronte ai costi particolarmente elevati per la realizzazione delle centrali. O ancora, si dubita della capacità del nostro paese di garantire quel grado di sicurezza che le centrali nucleari richiedono per azzerare il pericolo del rilascio di radioattività.
Se in un’ottica privatistica i problemi sono circoscritti ai soli costi e ricavi, risulta evidente che per la politica le implicazioni sono più articolate e intrise di incertezze.
Occorre anzitutto ricordare come le valutazioni in tema di nucleare vengono declinate su un arco temporale assai ampio. Si tratta di un primo periodo che va dai 5 agli 8 anni per la sola realizzazione delle centrali al quale va aggiunto un secondo periodo di 40-60 anni di funzionamento, decorso il quale le centrali vanno smantellate e i rifiuti radioattivi smaltiti; rifiuti che, come autorevolmente ricordato, mantengono un elevato grado di pericolosità finanche per millenni.
Durante la fissione del combustibile (composto da biossido di uranio) presente nel reattore vengono infatti generati grandi quantità di prodotti radioattivi estremamente pericolosi per la salute e l’ambiente qualora dovessero fuoriuscire dalle centrali.
Ogni tecnologia, è vero, ha il suo margine di rischio, ma qual è la probabilità che, sul fronte del nucleare, tale rischio si concretizzi? E soprattutto, quali sarebbero le conseguenze di un incidente più simile a quello di Cernobyl che a quello di Three Mile Island? I rischi saranno maggiori o minori rispetto a quelli generati dalle altre modalità di produzione elettrica?
Nel dibattito storico sviluppato in materia, tali domande hanno trovato risposte fra loro più o meno contraddittorie. Su un punto però non vi sono dubbi: se un certo grado di sicurezza può raggiungersi in fase di progettazione e realizzazione dell’impianto, così non si può dire con riferimento alla fase di funzionamento, soprattutto con riferimento ai rischi relativi all’errore umano.
Oggi, invero, ci si chiede se, fra cinque anni, ad esempio, quando la prima centrale nucleare comincerà a funzionare, il Paese sarà già dotato di personale altamente specializzato. O ancora, se fra cinque anni avremo un’autorità di controllo capace di soddisfare il grado di valutazione e ispezione richiesto.
In Italia, saremo pronti a mantenere quell’elevato grado di sicurezza sul lavoro che, purtroppo, in altri settori tende spesso a venir meno? Siamo pronti a creare un sicuro sistema di cambio generazionale tra vecchi e nuovi addetti e ad accompagnare alla creazione di un nuovo sistema energetico con alti livelli di ricerca?
Le domande cui occorre dare risposta sul fronte della sicurezza sono decisive così come lo sono anche quelli in materia di smaltimento dei rifiuti radioattivi. Per cui, ci si chiede, se questi devono essere smaltiti in depositi geologici o in superficie? In depositi regionali o in un unico deposito nazionale? Creare cosiddette fosse oceaniche o meglio “lanciarli nello spazio”?
È possibile, ad oggi, programmare una trasmutazione dei rifiuti radioattivi?
Si tratta di domande attorno alle quali occorrerebbe costruire, tutti insieme, un dibattito che conduca a risposte chiare e razionali, che riduca la profonda differenza che vi è tra la percezione comune del rischio (particolarmente elevata e diffusa) e la valutazione tecnica che di questo è stata realizzata dagli uffici specializzati.