Adottato come testo base dalla Commissione Affari costituzionali della Camera il testo presentato dal collega Giuseppe Brescia del Movimento cinque stelle sulla modifica della vetusta disciplina sul riconoscimento della cittadinanza in Italia. La proposta, in particolare, prevede l’introduzione dello Ius Scholae riguarda i bambini nati in Italia da genitori stranieri o che, arrivati prima dei dodici anni, abbiano già completato un ciclo scolastico di cinque anni, anche risultante dalla somma degli anni svolti in livelli scolastici diversi (ad es. due anni di elementari e tra di scuola media).
La proposta, certamente più moderata rispetto al c.d. ius soli “temperato” del 2015 (ovverosia il diritto di cittadinanza acquisito, in via automatica, da un bambino nato in Italia se almeno uno dei due genitori risultava legalmente in Italia da almeno 5 anni), rappresenterebbe il superamento necessario di una disciplina che, come quella vigente, risulta del tutto incompatibile con la dimensione multietnica che ormai connota il nostro paese da decenni.
Ad oggi, infatti, un bambino nato da genitori stranieri, anche se in territorio italiano, potrà avanzare la richiesta di riconoscimento della cittadinanza italiana solo dopo il compimento del diciottesimo anno d’età e sempreché abbia risieduto in Italia in modo “legale e ininterrotto”. Un siffatto sistema fa sì che molti degli studenti nati in Italia da cittadini stranieri frequentino tutto il ciclo scolastico all’interno di un contesto che li vede estranei al riconoscimento dello status di cittadini, e di tutti i diritti e doveri che da tale status derivano.
Ciò è ancor più inspiegabile se sol si tiene conto del fatto che, dati alla mano, i giovani stranieri rappresentano una componente numerosa nella popolazione degli studenti italiani. In particolare, in base ai dati ufficiali condivisi dal Miur, di un totale di 8,5 milioni di studenti nell’anno scolastico 2019/2020, circa 877 mila sono studenti privi della cittadinanza italiana. Di questi, circa 710 mila frequentano la primaria e la secondaria di primo e secondo grado.
È indubbio che si tratta di ragazze e ragazzi che fanno parte del tessuto sociale del nostro paese. Ragazze e ragazzi cresciuti imparando la lingua italiana, osservando le nostre leggi, contribuendo al patrimonio culturale, artistico, valoriale della comunità tutta, ma che il nostro sistema continua a tenere fuori dai confini dello status civitatis in linea con una visione tutta ottocentesca che lega la cittadinanza al vincolo di sangue.
In particolare, la L. 91 del 1992 prevede che la cittadinanza per i soggetti stranieri nati in Italia ma da cittadini stranieri possa essere da questi richiesta e ottenuta solo dopo il compimento di diciotto anni, purché risulti un periodo di residenza da legale ininterrotta (dalla nascita) in Italia ed entro il compimento di diciannove anni. Le condizioni perché la disciplina si liberi del “condizionamento ereditario” risultano eccessivamente rigorosi, indifferenti al valore identitario della persona sia in senso individuale che collettivo. Una normativa come quella vigente è indifferente alla condizione di vulnerabilità cui sono esposti numerosi minori i quali, trascorrendo peraltro tutta la propria vita nelle nostre città tendono a interrompere i legami con il paese di origine dei genitori, dove sarebbe difficile per loro reintegrarsi, così finendo per ritrovarsi in una condizione di apolidia de facto.
Lo ius scholae, allora, non è terreno di scontro ideologico. È un atto di civiltà che, oltre a sottrarre molti giovani da una condizione di isolamento giuridico, consentirebbe di integrare la disciplina sulla cittadinanza e renderla al passo coi suoi tempi, e cioè pienamente compatibile con il senso di comunità, esso fatto di convivenza, partecipazione, condivisione.