Il lavoro post Covid19. Maggiore flessibilita’, maggiore tutela, maggiore istruzione.

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In base ai risultati condivisi in seno a un recentissimo sondaggio dell’Ipsos e del World Economic Forum1 condotto su 29 Paesi, è emerso come il mondo del lavoro post pandemia abbia subito un processo di cambiamento che difficilmente si arresterà.

Uno dei momenti di maggiore impatto è rappresentato dal ricorso al telelavoro e allo smart working: due modalità di svolgimento del lavoro capaci di creare molti vantaggi sia per le aziende che per i lavoratori.

Il tema è stato particolarmente sentito in ragione di una certa ambivalenza, in quanto a fronte di indiscutibili effetti positivi, l’allontanamento dagli uffici ne produce anche di negativi.

E invero, per quanto esso dia alla maggior parte dei dipendenti l’opportunità di conciliare più sfere della propria vita, quella lavorativa e quella familiare, ve n’è un’altra per la quale, invece, lavorare da casa non sembra per nulla una buona soluzione, venendo essa percepita come fonte di tutta una serie di rischi: dall’isolamento sociale alla disaffezione alla cultura aziendale; dalla tendenza al disimpegno lavorativo all’acuirsi delle disparità di trattamento e delle diseguaglianze di genere.

A differenza di chi propone le due soluzioni come alternative, lavorare in ufficio o lavorare da casa, credo che si debba procedere con maggiore cautela, posto che, alla luce della stretta connessione che esiste tra la singola modalità di svolgimento del lavoro e le situazioni personali del dipendente, la questione richiede un approccio modellato sui singoli individui.

Alla base di un approccio equilibrato, risiede la profonda convinzione che le successive pianificazioni lavorative debbano ribadire o, in talune circostanze ritrovare, il rispetto del valore delle interazioni umane e della realizzazione personale sia nell’ambito aziendale che in quello personale. 

In questo senso, un grande passo avanti è stato realizzato da molte realtà aziendali del nostro paese, le quali hanno di recente ribadito la necessità che il lavoro agile sia, anzitutto, alternato a periodi di lavoro trascorso fisicamente presso le proprie sedi; poi che esso duri per un periodo di almeno dieci giorni al mese e, non ultimo, che sia modellato sulle caratteristiche del singolo lavoratore e sulle peculiarità del lavoro svolto.

Il lavoro agile nostrano ha rivelato una natura bifronte. Da un lato, esso risulta ancora difettoso a causa di una generalizzata scarsa autonomia tecnologica, dall’altro, però, esso ha messo in luce un non indifferente stato di benessere. Ha permesso di comprendere che un lavoro può dirsi tale solo se soddisfacente, solo e nella misura in cui esso diventa flessibile, comprensivo, in altre parole: modellabile.

Per molti, è stato come rinascere. Ritrovare se stessi; finalmente scoprire una formula perfetta che permetta di vivere, non solo di lavoro, ma anche nel lavoro.

Un tale processo di cambiamento necessiterebbe, quindi, di investimenti volti a permettere una maggiore autonomia e una maggiore capacità organizzativa dei lavoratori. Sono molte le questioni tuttora pendenti.
Si pensi, ad esempio, al rischio del
technostress, condizione derivante dall’eccessivo uso delle apparecchiature tecnologiche e che il legislatore ha già avuto modo di affrontare attraverso la legge 81 del 2017, provvedendo alla creazione del c.d. diritto alla disconnessione, ovverosia il diritto dei lavoratori agili di non utilizzare apparecchi elettronici per un certo periodo della giornata.
Ebbene, per quanto un intervento del legislatore vi sia stato, è però necessario che ogni singolo lavoratore sia in grado di organizzarsi e di utilizzare gli strumenti con maggiore equilibrio, ovverosia efficienza ed efficacia, nonché di auto responsabilizzarsi, riducendo al minimo l’uso delle tecnologie anche dopo l’attività lavorativa. Per fare ciò, occorrono investimenti!
In questa direzione, qualche intervento legislativo v’è stato. Il più recente (L. 2727/2020), ha introdotto il c.d. POLA (Piano organizzativo per il lavoro intelligente) cui sono tenute le pubbliche amministrazioni, il 31 gennaio di ogni anno, attraverso il quale individuare le attività che possono essere svolte in modalità da casa, da almeno il 60% dei lavoratori, nonché, in mancanza del piano, l’applicazione della modalità agile su richiesta del 30% dei dipendenti.
L’effetto di tale piano organizzativo è quello di incentivare il ricorso allo smart working prevedendo un’ampia percentuale di possibili richiedenti ai quali rimettere la scelta di una simile opportunità. Questo approccio la dice lunga sulla direzione positiva che il nostro paese vuole percorrere: rimettere al singolo la scelta di lavorare da casa o in ufficio, ma soprattutto caricare la parte datoriale di tenere conto delle peculiarità, delle esigenze e della compatibilità tra il profilo del singolo lavoratore e la modalità di svolgimento delle mansioni scelta.
Perché si possa realmente far leva sulle potenzialità del lavoro agile, bisogna, allora, intervenire sulla politica del lavoro, su quella della formazione e sulla politica industriale.
Anche perché la maggior parte delle questioni preliminari concernenti l’operatività del lavoro agile rappresentano il principale settore di investimento di ogni Stato realmente competitivo.
Tra queste, certamente la questione del grado di istruzione dei singoli lavoratori.
Secondo quanto riportato dall’Inapp 2021, il nostro paese registra un basso livello di personale con istruzione terziaria, da sommare al numero di domande di elevate qualifiche professionali da parte del sistema produttivo italiano impantanato in uno “stato di impressionante arretratezza”.
È necessario governare l’istruzione. I cambiamenti sono già sotto gli occhi di tutti. Così come la necessità di elaborare un autentico processo di preparazione e accesso al lavoro, fondato sia sul valore del lavoro a distanza sia su quello del lavoro in presenza.
Forse è finito il tempo di un’impostazione tripartita: istruzione-lavoro-pensione. Forse è giunto quello del modello che dia rilievo alla formazione-pensione, e cioè un modello secondo il quale il lavoro deve essere costante aggiornamento, costante apprendimento, maggiore flessibilità del lavoratore nelle mansioni che svolge. Il lavoro deve smettere di rappresentare ciò che rappresenta tutt’oggi: un momento finale il cui contenuto è un eterno adagio fino alla pensione.
Coloro che hanno partecipato alla scorsa Conferenza dei giovani europei tenutasi a Strasburgo, hanno potuto constatare come l’accesso al lavoro sia ancora difficile per i giovani europei.
Uno degli incontri trattava il tema del Lavoro post Covid. Ho avuto modo di ascoltare gli interventi e mi trovo pienamente d’accordo con gli obiettivi più volte sottolineati in quella sede.
Stante l’impossibilità di prevedere quali saranno i modelli di business – l’IA continua il suo corso, lavori che spariscono2 – ciò che serve è apprendere e maturare una capacità di adattamento, di critica e di collaborazione, in una: imparare la creatività, perché le situazioni cambiano e lo fanno velocemente.
Dobbiamo affrontare la sfida dell’ingresso e della permanenza nel mondo del lavoro attraverso un approccio inclusivo, accessibile, adattabile, ma soprattutto consapevole.

Dietro ogni lavoratore c’è un’aspirazione, ci sono dei limiti, c’è una vita. Ci sono situazioni familiari difficili, c’è il rischio di emarginazione, c’è quel senso di profonda insoddisfazione e frustrazione troppo spesso ignorata. C’è un percorso, diverso da quello vissuto dagli altri, ci sono potenzialità diverse, c’è una competenza da perfezionare o tutta da integrare.
Ciò non va dimenticato, ché per quanto lo Smart working e il telelavoro serbino vantaggi, si prestano, per loro natura, molto bene ad aggravare le predette situazioni e a obnubilare il principale obiettivo di ogni società giusta: non ostacolare lo sviluppo della personalità umana, non delegare quest’ultima a un triste confinamento.
Rifacendomi all’interessante analisi svolta in seno al report sul Regulating tele work in a post Covid19 Europedell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, è ormai un dato acclarato che oggi esistono nuovi lavoratori, nuovi lavoratori di una nuova era che, in quanto tali, devono essere pronti ad adattarsi ai prossimi e nuovi modelli organizzativi, accompagnati da altrettanto aggiornate forme di tutela.

2 Cfr. Report del McKinsey Global Institute – febbraio 2021.

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