Ergastolo ostativo: il D.D.L. Ferraresi coglie nel segno.

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A complicare il dibattito sull’ergastolo ostativo sono le carenze che, ormai da anni, affliggono il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia.
Una delle principali ragioni che spinge i detenuti condannati per i delitti ex art. 4 bis ord. pen. a rifiutare la via del pentimento è infatti l’inefficacia delle misure che lo Stato si propone di adottate per proteggerli.

L’istituto della collaborazione di giustizia con valore premiale venne introdotto nel 1991 sulla base di ragioni di urgenza e necessità.
All’epoca, dopo Buscetta, non furono pochi i sodali mafiosi catturati che decisero di aiutare lo Stato ad affrontare la furia criminale delle mafia. Lo strumento ebbe un grande impatto sul versante investigativo e permise di scoprire sia l’architettura sia le capacità operative sia il substrato socio culturale della c.d. mafia.
Un entusiasmo che, però, durò solo pochi anni, perché, dopo il primo periodo, lo strumento cominciò a manifestare tutte le sue debolezze, alimentando in particolare lo scetticismo accademico che lo bollava come prossimo a scomparire.

Tra le storture: quella del falso pentitismo, ovverosia il caso di chi decideva di collaborare consegnando però all’autorità false informazioni o che, pur dichiarando il vero, ritrattava tutto una volta trovatosi davanti al giudice durante la fase dibattimentale o, ancora, di chi utilizzava (e alcuni continuano a farlo) la posizione di collaboratore per avanzare pretese, talora esorbitanti, allo Stato; nonché quella dei collaboratori vittime sacrificali, ovverosia di coloro che decidevano di collaborare
confidando nella protezione promessa dallo Stato, ma poi ritrovatisi esposti a seri pericoli per la
propria incolumità personale o di quella dei propri congiunti. La collaborazione, insomma, è un istituto utile solo ed esclusivamente nella misura in cui il collaboratore sia utile ai fini delle indagini e si fondi su un sistema di protezione sia effettivamente funzionante. Diversamente, è un vero e proprio rischio per i condannati, per i quali la collaborazione appare tutt’altro che una seconda opportunità di vita.

Tutto ciò accade perché a causa di risvolti pratici del tutto irragionevoli. Tra questi, ad esempio, quello relativo allo strumento di protezione dell’anonimato, anche noto come identità di copertura o cambiamento delle generalità, applicato nei casi di collaborazione.
In molti denunciano come, a causa dell’attuale normativa, tali documenti, più che proteggere il
collaboratore, lo espongono a maggiori rischi.
In particolare, succede che dopo l’assegnazione della nuova identità, alla stessa vengano comunque ricollegate, ex art. 17 comma 4 del DM 161 del 2004, sia le informazioni del casellario giudiziario sia quelle contenute presso il Centro elaborazione dati (SDI) del Ministero dell’Interno.
Così, sia in sede di colloqui sia di eventuali e casuali controlli di polizia, gli stessi collaboratori potrebbero essere tranquillamente riconosciuti.
E’ indubbio che un tale sistema di c.d. “travasi informativi”, come li definisce il procuratore Tescaroli, svuoti la ratio dell’istituto e ne ostacoli la concreta operatività. Più che aiutare, insomma, l’istituto in questione complica la vita di chi decide di pentirsi e schierarsi definitivamente dalla parte dello Stato.
Per questa e simili irragionevolezza, in molti a invocano un intervento di riforma del sistema di collaborazione.

Tra queste, ce n’è una di particolare interesse che, frattanto, permetterebbe di contenere i pericoli connessi alla scarsa protezione e di attendere in modo più sicuro l’elaborazione di un nuovo sistema di protezione dei collaboratori. Si tratta della proposta di istituzione del c.d. Garante nazionale per la tutela dei collaboratori di giustizia, dei testimoni e dei whistleblowing.
La riporto in questa sede perché credo che talune delle considerazioni svolte sulla proposta chiariscano il senso, l’importanza e la centralità che l’istituto della collaborazione di giustizia deve ricoprire e perché permette di meglio comprendere come la scelta di collaborare non è per nulla
semplice.
La proposta, quindi, prevede l’istituzione, presso il Ministero della Giustizia o dell’Interno, di un autorità di controllo e dialogo, di natura non giurisdizionale ma autonoma, e competente su tutte le questioni che coinvolgano direttamente il collaboratore e i suoi congiunti.
Capace di operare nel solco di un c.d. sistema di visite periodiche e coordinate con quelle svolte dalle sue articolazioni regionali, l’attività del Garante si sostanzierebbe nell’elaborazione di raccomandazioni e valutazioni sullo stato del collaboratore e sulle sue esigenze, così da ridare solidità, trasparenza e dignità all’istituto della collaborazione e di limitare il più possibile il ricorso all’ergastolo ostativo.
In attesa che se ne discuta più approfonditamente anche in Parlamento, ritengo opportuno affrontare in questo modo il dibattito sull’ergastolo ostativo: indagando, individuando i punti critici sui quali intervenire, elaborando soluzioni, discutendo le proposte e le osservazioni degli addetti ai lavori.
Diversamente, il percorso potrebbe essere molto più tortuoso di quanto non lo sia già.

1 In questo senso, l’interessante contributo del Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze Luca Tescaroli in Questione Giustizia dal titolo “Nuove generalità per i collaboratori di giustizia: problemi aperti e nuove soluzioni”.
2 Si tratta di una proposta di recentissima fattura, elaborata dal dott. Vincenzo Musacchio, e che sin dalla sua trasmissione ha generato l’interesse di molti degli addetti ai lavori, soprattutto per le positive implicazioni pratiche.

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