I delitti ambientali rappresentano ormai un escamotage attraverso il quale risparmiare costi di smaltimento dei rifiuti, accelerare i processi di vendita, rendere la propria azienda più competitiva rispetto a quelle che, diversamente, sostengono il peso degli smaltimenti in modo legale.
In tale sistema, le cosche si accaparrano gare d’appalto, gestiscono i rapporti con le amministrazioni locali, controllano la popolazione, permettendo alle imprese di arricchirsi illecitamente attraverso due strade alternative: il sistema di compravendita avente a oggetto il trasferimento, in cambio di denaro, di tonnellate di rifiuti verso paesi terzi – quasi sempre del continente africano; oppure la falsificazione delle capacità di stoccaggio dei propri impianti di smaltimento, la quale permette di superare la quantità di rifiuti dichiarata e poi distruggere i propri stabilimenti simulando falsi incendi.
Attraverso queste tecniche illecite l’obiettivo è sempre raggiunto: plastica, scarti industriali, rifiuti urbani tutto smaltito cagionando gravi danni all’ambiente.
In Italia, stante l’inadeguatezza dei sistemi e degli impianti di smaltimento pubblico, la legge impone alle stesse imprese produttrici di ritirare e smaltire i beni da loro prodotti.
Dall’analisi delle diffuse prassi criminose emergono però verità sconfortanti. Il più delle volte, gli enti, vuoi per incapacità organizzativa vuoi a causa delle inosservanze dei suoi funzionari, bypassano i dovuti controlli.
Già da anni, il Parlamento ha preso atto dell’urgenza che caratterizza la materia ambientale, sottolineando, in più occasioni, la necessità di un intervento legislativo che perfezioni, rendendole maggiormente efficaci, le attività di prevenzione e repressione dei reati ambientali, sia sul versante amministrativo che, soprattutto, su quello penale.
Un interessante tentativo è quello che vorrebbe realizzare la recente proposta di legge Micillo n. 3176, contenente modifiche al titolo sui reati ambientali del codice penale, al D.lgs. 152/2006 e alle altre disposizioni sanzionatorie, e volta a consegnare al nostro paese una normativa aggiornata e più efficace.
In linea con quanto denunciato da più parti – magistrati, accademici, appartenenti all’Arma dei Carabinieri – l’attuale disciplina sui reati ambientali soffre di un grosso difetto: permette di intervenire solo quando i danni ambientali si sono già verificati e, talora, siano divenuti addirittura irreversibili.
Ciò accade, non per carenze dell’apparato investigativo italiano, ma a causa di un sistema sanzionatorio troppo blando: la maggior parte dei fatti commessi a danno dell’ambiente vengono puniti dal codice penale con una pena la cui misura preclude l’impiego dei più penetranti strumenti investigativi e delle più rigorose misure cautelari.
Un esempio è quello dell’abbandono di rifiuti pericolosi da parte di privati. Un fatto che il nostro ordinamento inserisce tra i fatti di minor disvalore e quindi tra quelli che non giustificano l’attivazione di strumenti investigativi come le intercettazioni telefoniche e ambientali o l’impiego dei malware.
Un altro punto interessante affrontato dalla proposta è quello della responsabilità degli enti per i reati a danno dell’ambiente e dell’ecosistema.
In breve, con l’approvazione della proposta, il giudice potrebbe finalmente porre a carico dell’ente condannato il recupero e il ripristino (ove possibile) dello stato dei luoghi e i relativi costi. Inoltre, qualora l’ente riesca a sottrarvisi in qualche modo, la responsabilità verrebbe estesa anche ai proprietari dei fondi ove vengono commessi i predetti reati ambientali; proprietari che, per andare esenti da responsabilità, sarebbero tenuti a provare la loro buona fede, a provare di non aver tratto profitto dall’attività illecita altrui e di aver provveduto a controllare i propri beni con la dovuta diligenza richiesta dalle peculiarità degli stessi.
Con queste e altre novità, la proposta, insomma, assume un tono forse rivoluzionario e, sicuramente, di forte critica nei confronti di un progetto europeo in fallimento.
La Direttiva Ecocrime 2008/99/CE (concernente la tutela penale dell’ambiente), che di fatto ha posto le basi per la creazione di un’area normativa europea comune in materia di crimini ambientali, negli ultimi anni ha però rivelato grosse carenze sul piano operativo.
In primis, quella di subordinare l’intervento penale all’accertamento di un danno, soprassedendo, invece, su tutte quelle ipotesi di pericolo che invece rappresentano il vero momento strategico nella lotta alla criminalità ambientale. In secondo luogo, quella di aver elaborato fattispecie di reato dal taglio letterale particolarmente incerto, ampliando così la discrezionalità dei singoli legislatori nazionali.
Si tratta di carenze di non poco conto, alle quali è necessario reagire. Diversamente, le strade sarebbero due: o affidarsi all’impegno di ogni singolo Stato – il che, in ragione dei numerosi interessi economici coinvolti, non sembra essere la scelta migliore; oppure modificare la Direttiva, affinché sia questa a indicare ai singoli Stati il grado di tutela penale e di determinatezza da impiegare nella lotto alla criminalità ambientale.
Bisognerebbe, insomma, innalzare le cornici edittali di pena, e di conseguenza i termini di prescrizione degli stessi; bisognerebbe creare un più coordinato sistema cooperazione investigativa transfrontaliera tra le autorità giudiziarie (al quale, peraltro, l’Italia aggiungerebbe quello tra singole Procure e Procura nazionale antimafia proposto dal DDL); bisognerebbe diffondere la buona pratica della c.d. statistica giudiziaria, perché la raccolta, condivisione e comunicazione dei dati relativi ai procedimenti penali in materia ambientale permetterebbe di elaborare valutazioni di impatto molto più attendibili; e infine, occorrerebbe ribadire, anche sul piano europeo, la responsabilità amministrativa degli enti per i reati ambientali.
I reati contro l’ambiente non possono essere affrontati in altro modo. Gli eccessivi margini di discrezionalità della Direttiva hanno impedito di fatto un’omogeneità normativa tra i singoli ordinamenti europei e, di conseguenza, l’intervento repressivo sul vero terreno fertile della criminalità ambientale: il livello sovranazionale.
Il DDL Micillo è un’altra, ennesima occasione per fare un passo avanti a livello nazionale, ma anche per lanciare un segnale positivo a livello europeo, e finanche internazionale, dove, peraltro, sembra rianimarsi lo storico dibattito sulla previsione dell’ecocidio tra i reati perseguibili dalla Corte penale internazionale. Laddove ciò avvenisse, sarebbe finalmente possibile attivare una macchina di contrasto internazionale a tutti quei fatti che cagionano danni ambientali in una pluralità di territori statali.
Lo spirito che anima il dibattito sull’ecocidio è lo stesso che muove quello realizzato attorno al d.d.l. in esame: porre la tutela dell’ambiente sullo stesso piano della tutela dei diritti umani.
E’ poi chiaro che la sola riforma penale non è sufficiente. Alla base della criminalità ambientale, vi sono diversi fattori. Dalle lungaggini delle procedure industriali proprie delle singole aziende, al disordine dei sistemi di raccolta municipale dei rifiuti; dall’eccessiva stratificazione delle competenze amministrative alla scarsa attività di controllo sull’elaborazione e attuazione dei progetti di bonifica; e prima di tutto sulle profonde lacerazioni sociali che rendono i consociati inconsapevoli circa la reale gravità dei fatti da loro commessi.
Sono tutti fattori sui quali bisogna intervenire con una riforma di più ampio respiro. La riforma del diritto penale le spianerebbe la strada.