Secondo i dati riportati dall’ultimo Report del Viminale sui reati commessi contro le donne, il numero di questi appare in tendenziale calo. Un risultato che certamente rileva nella valutazione dell’impatto generato dalle riforme realizzate in quest’ultimi anni, che tanto serve per l’individuazione di correlazioni e, in ultima istanza, per la pianificazione di migliorie normative. Dopodiché, per quanto i reati in questione continuino a diminuire1, la situazione resta comunque drammatica.
Nel 2021, infatti, il numero di donne uccise per motivi legati al genere è di 83. Di questi, circa 42 sono stati commessi da uomini con i quali le vittime avevano instaurato un rapporto di natura sentimentale. Relazioni difficili, conflittuali e, per lo più, in una fase di separazione. Relazioni che, lungi dal rimanere circoscritte a contesti di emarginazione sociale ed economica, vedono per il 70% dei casi protagonisti cittadini italiani2.
Un segnale incoraggiante arriva, invece, dai dati pubblicati nel portale informativo ISTAT e relativi al numero di denunce aventi a oggetto i reati cc.dd. spia, cioè quei delitti come lo stalking e i maltrattamenti in famiglia che generalmente caratterizzano la progressione criminosa che conduce all’ultimo, terribile momento dei reati di genere: l’omicidio.
Ebbene, l’aumento delle denunce rivela il diffondersi di una maggiore consapevolezza. Il venir meno di quell’atteggiamento di omertà e subordinazione che, ancora oggi, fa sì che molte donne subiscano in silenzio molestie, denigrazioni, umiliazioni, aggressioni fisiche. I reati di questo tipo tendono a generare una condizione molto simile alla prigionia. Isolamento, annullamento, disaffezione; una generale condizione di disagio che si connota, peraltro, di specifiche sofferenze fisiche e indubbiamente psicologiche.
Sul punto, l’Organizzazione mondiale della Sanità ha pubblicato un rapporto di Valutazione globale e regionale della violenza contro le donne in seno al quale la violenza contro le donne viene individuata come fonte di “un problema di salute di proporzioni globali enormi” sia per le donne che, nel caso di violenze perpetrate in contesti familiari, per i figli minori che vi assistono generando in loro un aumento del rischio di disturbi emotivi e comportamentali.
Le principali criticità nella lotta contro la violenza di genere
Nel corso di quest’ultima legislatura, il Parlamento ha affrontato seriamente la lotta contro la violenza sulle donne, continuando a percorrere le strade della prevenzione, della sanzione e della protezione indicate dalla Convenzione di Istanbul3.
In particolare, l’ordinamento italiano ha aggiornato l’elenco dei reati di cui al codice penale inserendo specifiche ipotesi delittuose come la deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (nuovo art. 583-quinquies c.p.), la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate, altrimenti noto come Revenge porn. Allo stesso tempo, l’intervento riformatore ha aggravato la risposta sanzionatoria prevista per fattispecie delittuose centrali nella lotta contro la violenza di genere. Dopo il Codice Rosso, le pene per il reato di maltrattamenti in famiglia sono diventate più elevate e, inoltre, è cambiata la posizione del minore che assiste ai maltrattamenti subiti dal genitore. La sua presenza non è più una mera aggravante. La sua presenza lo rende persona offesa. Sicché, chi maltratta il coniuge o convivente davanti al figlio, maltratta anche la prole.
Un traguardo encomiabile, il Codice Rosso, frutto di una maggiore consapevolezza, determinata soprattutto dall’impegno delle Procure, dei Servizi sociali, grazie all’attività della succitata Commissione di inchiesta e all’impegno profuso dalla società civile.
A due anni dall’applicazione, però, non sono poche le criticità. Esse non concernono la normativa in sé, ma le difficoltà strutturali denunciate dagli addetti ai lavori e ribadite in seno al recente Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria4.
Tra queste, ad esempio, quella concernente la competenza dei consulenti tecnici coinvolti nei procedimenti e nei processi penali.
A ben vedere, secondo quanto riportato dal Rapporto e riscontrato anche da ulteriori report, tra cui quello dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne 3/2021 di Sistema Penale, molti Consulenti appaiono talora non aggiornati o finanche del tutto privi della dovuta specializzazione.
Molti di loro continuano ad avallare teorie datate e superate come, ad esempio, quella relativa alla c.d. sindrome dell’alienazione parentale in base alla quale si ritiene che se i bambini non vogliono vedere il genitore non affidatario è a causa della manipolazione di quello affidatario. Una teoria che va leva su posizioni prive di fondamento il cui principale effetto è quello di colpevolizzare la parte denunciante e di caricarla di ulteriori responsabilità.
La questione non è di poco conto. Come delineato dagli artt. 15 e 31 della Convenzione di Istanbul, l’attività dei consulenti è fondamentale. Essi hanno la responsabilità di informarsi sulle dinamiche della violenza domestica, di lavorare con le madri per creare e attuare piani per migliorare la loro vita e quella dei loro figli; di considerare gli autori responsabili dei loro atti di violenza, non certo di colpevolizzarle.
Sul punto, ad esempio, il Parlamento potrebbe intervenire introducendo una legge sul divieto di usare teorie datate, scevre di un riferimento scientifico, come quella della Sindrome di alienazione parentale5 molto diffusa nei Tribunali o come quella, particolarmente ambigua, del c.d. “genitore sufficientemente buono” per cui un genitore, anche se violento, è ritenuto necessario. Convincimenti, questi, che dovrebbero essere sottoposti ad attente valutazioni al fine di bandirle dai processi in quanto prive di supporto scientifico e fonte di ulteriori pericoli per l’incolumità delle vittime.
Un coniuge violento è un pericolo per l’altro coniuge. Un genitore violento è un pericolo per la prole in quanto l’esposizione dei bambini alla violenza domestica porta a gravi conseguenze, in specie quelle dei disturbi emotivi e comportamentali.
Un’altra importante criticità riguarda il coordinamento fra le Procure. Sono ancora pochi gli Uffici di Procura specializzati nella materia della violenza di genere. La maggior parte, invero, continua a vivere all’interno di contesti difficili, senza il supporto di investimenti, soprattutto di personale e mezzi. Ciò significa che lì i procedimenti in materia sono assegnati a tutti i magistrati indistintamente. E ciò porta con sé il rischio di un’attività superficiale o poco attenta. La materia della violenza di genere è talmente complessa da richiedere trattamenti specifici e tempestivi che solo una specializzazione può dare.
Di criticità segnalate in questi anni non ne mancano. Quella relativa ai Tribunali di sorveglianza rappresenta forse quella più sorprendente. Invero, ad oggi, i Tribunali di sorveglianza che acquisiscono le informazioni dalle persone offese ai fini della concessione dei beneficiari sono veramente pochi. Una prassi assurda se sol si pensa che in buona parte i benefici vengono concessi, esponendo d’un tratto le vittime, ignare di tutto, a un potenziale pericolo di aggressioni finanche più gravi di quelle subite in precedenza.
Il 25 novembre: una difficile e necessaria rivoluzione culturale che si serva del diritto penale.
Nel nostro paese ogni contesto può diventare un potenziale momento di violenza per il sol fatto del genere. Perfino all’interno di un’aula di Tribunale con un giudice che, esorbitando di gran lunga le esigenze processuali, redigeva una sentenza afflitta da un “riprovevole pregiudizio di fondo”. Un “linguaggio colpevolizzante e moraleggiante – afferma la Corte europea dei diritti dell’uomo che per tal fatta ci ha condannati violazione dell’art. 8 CEDU – che scoraggia la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario” per la “vittimizzazione secondaria cui le espone”.
Oggi, i procedimenti penali italiani relativi ai reati di violenza di genere sono “spesso vissuti come un calvario dalla vittima, in particolare quando quest’ultima si confronta contro la sua volontà con l’imputato”. Un momento in cui, il più delle volte, essa viene umiliata o intimidita. Un radicato sessismo che prende forma in parole, sguardi, sorrisi, speculazioni che irrompono illegittimamente nei dibattimenti. E che, di fatto, impediscono la tutela che la vittima meriterebbe.
Tutto ciò è inaccettabile. Soprattutto se occorre in un settore come quello penalistico che, come anche ribadito dalla Corte, svolge un ruolo “centrale nella risposta istituzionale alla violenza di genere e nella lotta alla disuguaglianza di genere”.
Purtroppo, alla base della violenza commessa a danno delle donne vi è un modo di pensare, di relazionarsi con il genere femminile profondamente viziato che solo attraverso un’azione concertata tra istituzioni può estirpare.
Troppi sono i contesti relazionali violenti, possessivi, soffocanti; troppo diffusi gli atteggiamenti predatori, presunzioni di superiorità, degenerati complessi di inferiorità.
Alla base della violenza di genere, c’è un profondo vuoto che deturpa la bellezza, che fende la libertà, svilisce la personalità, che ne impedisce la realizzazione, che segna per sempre l’identità di una donna. C’è una carenza culturale, alla base della violenza di genere, un vuoto profondo nelle coscienze che progressivamente cerca di annientare in tutti i modi la vita di una donna.
A fronte di tutto ciò, è chiaro che potremmo pure apportare tutte le migliorie legislative del caso, ma se non eliminiamo i pregiudizi dalle parole e dagli argomenti d’ogni giorno, tanto più dalle sentenze dei nostri giudici, risolveremo poco o nulla.
1 Nel 2018, le donne vittime di omicidio sono state 141. Poi, 111. Diminuiscono di qualche decina anche nel 2020. Mentre nel 2021 sono state 83.
2Cfr.https://www.interno.gov.it/sites/default/files/2020-11/brochure_violenza_sulle_donne_25_novembre_2020.pdf
3 In questo senso, l’approvazione della legge 69 del 2019 – c.d. Codice Rosso; in questo senso l’istituzione di una Commissione di inchiesta monocamerale sul femminicidio.
5 Conetto elaborato negli anni 80, quello della Sindrome di alienazione parentale è utilizzato anche nelle aule al fine di sostenere che la ragione per la quale un bambino rifiuta di vedere il genitore non affidatario sono i condizionamenti subiti dall’affidatario. Un concetto assurdo che viene impiegato perfino quando le donne decidono di separarsi da partner violenti pure nei confronti dei figli.